Residuo + donato – debiti = asse ereditario. Questa è la semplice formula che viene insegnata sui banchi delle Università per la quantificazione del valore dell’asse ereditario.
All’apparenza non vi sono complessi conteggi da realizzare, ma, sin dal principio, tale regola, dettata dall’art. 556 cod. civ., indica come, nel nostro sistema successorio, le donazioni giochino un ruolo determinante.
E infatti, per ricostruire il valore della massa ereditaria, la sopra richiamata disposizione impone che le donazioni realizzate in vita dal de cuius debbano essere fittiziamente riunite a tutti i beni ancora appartenenti al defunto al momento della morte, previa sottrazione dei debiti gravanti sull’eredità.
Tale operazione è prodromica all’individuazione delle quote spettanti a ciascun erede, alla quantificazione della quota di legittima, alla operatività o meno dell’istituto della collazione e alle relative regole in punto di imputazione.
Ma cosa può essere, effettivamente, qualificabile come donazione? Non è infrequente, invero, nel tradizionale modo di procedere in ambito familiare, che gli acquisti di immobili da parte dei figli siano finanziati da denaro paterno o materno, senza che però vi sia traccia di questo passaggio di provvista.
Ciò comporta che colui che si ritenga leso nella propria quota di legittima si trovi di fronte a un primo scoglio da affrontare, dovendo, nell’eventuale causa di lesione, provare la simulazione della compravendita dell’immobile. Nella stessa posizione si trova colui che intenda far collazionare ex art. 737 cod. civ. il bene donato in sede di divisione ereditaria[1].
Superata questa prima difficoltà, si pone una seconda questione di non poco momento, in punto di individuazione del valore dei beni donati.
Invero, l’art. 747 cod. civ. impone che la stima del donatum sia riferita al momento dell’apertura della successione. Questo scollamento temporale tra momento della donazione e valutazione è elemento scatenante forti conflittualità.
Pensiamo, ad esempio, a un padre che decida, in vita, di donare ai propri figli due immobili di egual valore. Qualora vi siano sensibili fluttuazioni di mercato, questi due immobili, al momento della morte, potrebbero avere un valore considerevolmente diverso e, quindi, avere un peso diseguale sulle rispettive quote di legittima, rispetto a quanto ipotizzato dal padre al momento della donazione.
Ancora, si abbia riguardo all’erede che in vita ha ricevuto in donazione un bene immobile, successivamente alienato: se nel tempo che intercorre tra alienazione e apertura della successione il bene aumenta o diminuisce di valore per fattori indipendenti dalle migliorie realizzate dall’acquirente, la stima viene comunque effettuata con riferimento al momento dell’apertura della successione, cosicché l’erede si può trovare costretto a imputare alla sua quota una somma minore o maggiore rispetto a quella effettivamente ricavata[2].
La situazione diviene ancor più complessa laddove la donazione abbia avuto a oggetto l’azienda[3]. Invero, in tale caso diviene arduo verificarne il valore e, contestualmente, dare un peso alle “migliorie” o ai “deterioramenti” che il donatario abbia eventualmente apportato. Il codice sostanziale, infatti, tace su tale aspetto, riferendosi alle migliorie o deterioramenti soltanto per quanto concerne i beni immobili.
Infine, ulteriore aspetto che viene spesso trascurato, ma anch’esso di notevole incidenza, è la difficile collocabilità sul mercato, nonché la fisiologica svalutazione dei beni che siano stati oggetto di donazione. E infatti, i beni donati possono essere soggetti all’azione di restituzione che consegue al positivo esperimento dell’azione di riduzione da parte del coerede leso. Ciò significa che se un terzo acquista un bene immobile di provenienza donativa, può essere costretto a restituire il bene stesso al legittimario vittorioso. Questa circostanza, facilmente conoscibile attraverso un’indagine presso la competente Conservatoria, rende particolarmente diffidenti i terzi acquirenti e gli istituti di credito nella concessione di mutui[4].
Quanto sopra costituisce soltanto una sintetica panoramica dell’incidenza delle donazioni nel fenomeno successorio. Panoramica sintetica sì, ma sufficiente a evidenziare come il ricorso a questo negozio giuridico debba essere inserito in una corretta e studiata pianificazione, in modo tale da scongiurare qualsiasi elemento di conflittualità.
[1] Si segnala, al riguardo, che l’azione di simulazione è soggetta a due diversi regimi di prescrizione: dieci anni dall’apertura della successione, in caso di azione del legittimario per lesione di legittima, dieci anni dall’atto di donazione, in caso di esperimento dell’azione di simulazione in sede di divisione ereditaria per ottenere la collazione del bene che si presume donato (cfr., da ultimo, Cass. Civ. del 29/02/2016 n. 3932 reperibile su De Jure). Si segnala, altresì che, soltanto in caso di esperita azione di riduzione, il regime probatorio dell’azione di riduzione non soggiace ai limiti disposti in caso di azione di simulazione: invero, (cfr. ex multis, Cass. Civ., 30/07/2002, n. 11286, reperibile su De Jure) si rileva coma: “ai fini della prova della simulazione di una vendita posta in essere dal de cuius per dissimulare una donazione, l’erede legittimo può ritenersi terzo rispetto agli atti impugnati, con conseguente ammissibilità senza limiti della prova della simulazione, solo quando, contestualmente alla azione volta alla dichiarazione di simulazione, proponga anche una espressa domanda di riduzione della donazione dissimulata, facendo valere la sua qualità di legittimario e fondandosi sulla specifica premessa che l’atto dissimulato comporti una lesione del suo diritto personale alla integrità della quota di riserva spettantegli, in quanto solo in questo caso egli si pone come terzo nei confronti della simulazione.”
[2] Si pensi alla paradossale conseguenza alla quale è giunta la sentenza n. 20041 del 06/10/2016, Cass. Civ., reperibile su De Jure, ove è stato confermata la decisione della Corte di merito, la quale, nel caso di fondo oggetto di collazione, venduto nel 1984, allorquando aveva destinazione agricola, per un importo di Lire 15.000.00, aveva considerato che esso era divenuto edificabile ed aveva disposto la collazione del suo valore, acquisito dopo la vendita, per euro 108.000,00. Sostiene al riguardo la Corte che: “Vero è, invece, che tale mutamento della destinazione del bene costituisce una variabile economica da tenere in conto ai fini della stima del bene al momento dell’apertura della successione. Sul punto, questa Corte ha infatti ritenuto che poiché ai fini della determinazione della quota di eredità riservata al legittimario il valore dell’asse ereditario residuo e dei beni donati in vita dal de cuius va calcolato al momento dell’apertura della successione, anche l’inizio di un procedimento di trasformazione urbanistica è di per sé sufficiente ad incidere sul valore di mercato di un immobile compreso nell’area oggetto dello strumento urbanistico (Cass. 24 novembre 2009, n. 24711).D’altro canto, la soluzione indicata da parte ricorrente conduce alla inaccettabile conseguenza per cui, a fronte di un medesimo fatto (il mutamento della destinazione urbanistica del fondo), la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilità del donatario, e il valore del bene al netto dell’incremento determinato dalla sopraggiunta vocazione edificatoria del fondo, nel caso in cui questo sia alienato”.
[3] Si deve far attenzione, nel qual caso, se siano state donate quote societarie o meno, perché ne consegue la diversa applicazione dell’art. 750 o 746 c.c. Afferma, infatti, la Suprema Corte di Cassazione, sez. II, n. 502 del 15/01/2003, reperibile su De Jure, che: “mentre è soggetta a collazione per imputazione, prevista dall’art.750 cod. civ. per i beni mobili, la quota di società, in quanto – non conferendo ai soci un diritto reale sul patrimonio societario riferibile alla società, che è soggetto distinto dalle persone dei soci – attribuisce un diritto personale di partecipazione alla vita societaria, va compiuta, secondo le modalità previste dall’art. 746 cod. civ. per gli immobili, la collazione della quota di azienda, che rappresenta la misura della contitolarità del diritto reale sulla “universitas rerum” dei beni di cui si compone, sicché – ove si proceda per imputazione – deve aversi riguardo al valore non dei singoli beni ma a quello assunto dall’azienda, quale complesso organizzato, al tempo dell’apertura della successione.”
[4] E’ pur vero che l’art. 563 c.c. prevede che l’azione di restituzione contro i terzi acquirenti non possa proporsi se sono decorsi venti anni dalla trascrizione della donazione, e che l terzo acquirente può liberarsi dall’obbligo di restituire in natura le cose donate pagando l’equivalente in danaro, ma fa salva la facoltà per il coniuge e per i parenti in linea retta di sospendere il termine, notificando un atto stragiudiziale di opposizione alla donazione.